Complice il mio ultimo corso di Ca’ Foscari (fonti greche sul mito) e la riapertura agli spostamenti tra regioni, ho deciso di tornare nel Lazio per vedere – finalmente di persona – il magnifico Antro di Tiberio a Sperlonga e “scoprire” due pezzi (che descriverò qui in un prossimo articolo) esposti ai Musei Capitolini di Roma: il cratere di Aristonothos e la Tabula Iliaca Capitolina.
Il leitmotiv della visita sono le vicende raccolte e ordinate nel ciclo troiano, in particolare l’episodio dell’accecamento di Polifemo da parte di Odisseo e dei suoi compagni, magnificamente scolpito a Sperlonga e dipinto nel vaso ora a Roma.

L’Iliade e l’Odissea omeriche sono “solamente” due dei poemi legati allo scontro tra gli Achei e i Troiani. L’intera saga è oggetto infatti di una tarda riorganizzazione “con lo scopo di concatenare in modo più efficace tra loro gli avvenimenti” (Cingano 2007), ed articolata in un ciclo di più poemi attribuiti a diversi autori (non solo Omero quindi) che, come apprendiamo soprattutto dai riassunti di Proclo (grammatico del II sec. d.C.) comprendeva nell’ordine: Cypria, Iliade, Etiopide, Piccola Iliade, Ilioupersis, Nostoi, Odissea e Telegonia.

L’Antro di Tiberio e i gruppi scultorei

“Banchettavano in una villa, chiamata Spelonca tra il mare di Amincla e i monti di Fondi, dentro una grotta naturale. Massi caduti d’improvviso all’imboccatura della grotta travolsero alcuni servi. Da qui panico generale e la fuga dei partecipanti al banchetto. Seiano, puntando gambe, braccia e volto, inarcato sopra Cesare [Tiberio], gli fece scudo ai sassi che cadevano e in quella posizione fu trovato dai soldati accorsi in aiuto”.

Tacito, Ann., IV, 59

La grotta di Tiberio, usata fino agli anni Cinquanta come riparo dai pescatori del piccolo borgo di Sperlonga nel basso Lazio, attirò la curiosità dell’ing. Bellante, direttore dei lavori di costruzione della nuova SS Flacca, il cui tracciato passa a poche centinaia di metri dal sito. Mettendo in relazione le vestigia della villa ancora presenti (già note), la conformazione naturale e la corrispondenza del toponimo Sperlonga con l’antica Spelunca ricordata da Tacito (vedi sopra) e Svetonio (Tib., 39, 2), decise nel 1957 di avviare le prime indagini, poi concluse dalla Soprintendenza. Dal bacino circolare interno all’antro furono nel tempo recuperati soprattutto migliaia di frammenti marmorei pertinenti a gruppi scultorei (deliberatamente ridotti in piccoli pezzi e qui gettati come riempimento), che hanno richiesto – e richiedono tuttora – notevoli sforzi sia interpretativi che di restauro.

L’antro era certamente pertinente alla vicinissima villa, di calibro imperiale come si può desumere dal livello dell’apparato decorativo e dalle fonti sopra menzionate, e ne costituiva il monumentale ninfeo affacciato direttamente sul mare. L’ambiente roccioso era stato accuratamente arricchito con decorazioni in stucco, mosaico e incrostazioni, nonché alterato (in diverse fasi) attraverso la costruzione di una prima piscina rettangolare dotata di una piccola isola centrale con attracco e destinata ai banchetti, collegata ad un secondo bacino, di forma circolare. L’affascinante commistione tra elementi naturali e artificiali era ulteriormente enfatizzata dall’inserimento scenografico di una serie di colossali gruppi statuari in marmo, e l’insieme era certamente studiato per provocare una immediata meraviglia (e promuovere dotte disquisizioni) ai membri della famiglia imperiale e ai loro commensali.

La grotta di Tiberio
L’ingresso all’antro di Tiberio. Da notare la vicinanza con il mare e il sistema di vasche e piscine che hanno modellato artificialmente lo spazio naturale.
Grotta di Tiberio dall'interno
L’aspetto attuale dell’interno della grotta (foto © Adobe Stock). Purtroppo, a causa delle restrizioni Covid-19, l’antro non era aperto alle visite.

Lo scenario naturale elaborato artificialmente fungeva quasi da palcoscenico e scenografia al programma iconografico che, secondo le ipotesi ricostruttive (Conticello 1974), aveva come protagonista Odisseo. Ai lati dell’imboccatura della vasca circolare erano collocati due gruppi scultorei “rievocanti l’antefatto delle peregrinazioni di Odisseo, ossia la guerra di Troia” (Andreae 1997) che ritraevano il cd. Gruppo del Pasquino (forse con Odisseo e Achille) e il ratto del Palladio. Al centro del bacino emergeva dalle acque Scilla, mentre sullo sfondo a destra Polifemo.

Il riconoscimento è stato tutt’altro che semplice. Inizialmente infatti i frammenti erano stati ricondotti ad un Laocoonte simile nella composizione a quello dei Musei Vaticani. Ad accreditare questa ipotesi, poi rivelatasi errata, era soprattutto la presenza di una iscrizione con le firme degli artisti rodii Athanodoros, Agesandros e Polydoros – già ricordati da Plinio proprio come gli autori del celeberrimo gruppo – associata al rinvenimento di spire anguiformi e figure umane cariche di una violenta espressività e dinamismo.

Nel descrivere i vari gruppi scultorei, procederò seguendo l’ordine cronologico delle vicende (non tutte ricavate dall’Odissea), che tuttavia coincide solo parzialmente con la ricostruzione del loro collocamento all’interno dell’antro. L’allestimento doveva quindi obbedire soprattutto a criteri scenografici e di opportunità, senza troppo preoccuparsi di una pedissequa aderenza alle fonti letterarie.

Il ratto del Palladio

Colpisce fortemente il contrasto fra il sapore arcaizzante della statuetta ed il sanguigno naturalismo della rude mano che la stringe. Si ponga attenzione, per esempio, alla viva contrazione delle dita intorno al simulacro della dea, alle vene fortemente rilevate ed all’evidenza dei fasci muscolari dell’avambraccio.

Conticello 1974, p. 39.

Il Palladio, come ricorda Apollodoro (Bibl. III, 12, 3), era un simulacro in legno (xoanon) di Pallade fabbricato da Atena, caduto dal cielo davanti alla tenda di Ilo, mitico fondatore di Troia, il quale costruì un tempio per onorare il sacro cimelio poiché “era destino che la città non fosse espugnata fino a che esso rimaneva dentro le sue mura” (Bibl. Epitome, 5, 10). Fu Eleno (indovino e figlio del re di Troia Priamo) che, catturato da Odisseo, rivelò agli Achei le tre condizioni per la presa di Troia, tra le quali il furto del Palladio.

Il gruppo di Sperlonga, composto da due figure, ritrae il momento del ratto dell’immagine sacra da parte di Diomede e Odisseo, e forse la rivalità, degenerata anche nel tentativo di omicidio che trapela da alcune fonti antiche (vedi Conticello 1974), tra i due eroi per l’attribuzione dell’impresa. Platone (Rep. VI, 493d), ad esempio, sembra fare riferimento a questa vicenda con l’espressione “necessità diomedea”.

Di Diomede ci sono pervenute la testa e il braccio che impugna saldamente il Palladio. Il volto dell’eroe è caratterizzato da una forte espressività (elemento comune a tutte le sculture di Sperlonga), resa soprattutto attraverso la sua torsione e gli occhi profondamente incavati. I capelli sono resi attraverso grosse ciocche che si dispongono liberamente accompagnando il movimento della testa, mentre le guance e il collo appaiono pieni e carnosi, quasi pingui, e la barba è appena accennata. La vivace caratterizzazione del volto di Diomede, che ben si confà alla resa vibrante ed espressiva del suo braccio, sembra stridere con la rigidità arcaizzante del Palladio. Appare evidente il tentativo dello scultore di emulare gli schemi più antichi per la resa dell’idolo, che tuttavia vengono in parte traditi da una costruzione troppo carnosa del suo volto e dalla resa dei panneggi. Secondo il già citato Apollodoro, questa immagine sacra lignea teneva nella mano destra una lancia brandita, mentre nell’altra una canocchia e un fuso, tuttavia nell’iconografia più diffusa – e verosimilmente anche nella scultura di Sperlonga – il braccio sinistro reggeva quasi sempre uno scudo.

L’altra scultura del gruppo, purtroppo acefala, è verosimilmente pertinente ad Odisseo. Lo scatto dinamico è reso attraverso l’impetuoso incedere della gamba sinistra alla quale corrisponde una vivace torsione del busto vestito con una clamide. La mano sinistra impugnava una spada, della quale rimane l’elsa, e l’atteggiamento generale, secondo Conticello, suggerisce “l’idea insieme dell’insidia, che Odisseo si appresta a tenere a Diomede, e del timore che induce l’eroe a raccogliersi su sé stesso”.

Il gruppo del Pasquino (Ulisse e Achille?)

Malgrado gli scarsi resti, questo gruppo sembra riconducibile a quello ben noto del Pasquino che ritrae un eroe impegnato a trascinare fuori dal campo di battaglia il corpo di un compagno ormai morto nello scontro. Il medesimo schema può però essere utilizzato per ritrarre più coppie di personaggi, come ad esempio Aiace e Achille o Menelao e Patroclo, pertanto diverse interpretazioni sono state date al gruppo di Sperlonga. Tuttavia sulla base dell’intero ciclo scultoreo dell’antro, e ad un passo di Ovidio “Su queste spalle, dico, su queste io portai la salma di Achille e al contempo le armi” (Met., XIII, 283 s.), sembra verosimile che la scena ritragga Odisseo e Achille. Se ciò fosse confermato, l’ingresso della vasca circolare sarebbe stato decorato dai due gruppi che, simmetricamente, ritraevano l’eroe polymetis intento al recupero di due “reliquie” fondamentali per la riuscita della presa di Troia: il già citato Palladio e le armi di Achille che, dopo il famoso episodio della “contesa”, saranno consegnate a Neottolemo (figlio del Pelìde) chiamato a scendere in battaglia anche per vendicare il padre.

I lineamenti della testa di Ulisse sono molto corrosi, tuttavia è di particolare interesse l’elmo istoriato che indossa. Qui è infatti raffigurata la stessa scena di Eracle che combatte un centauro, ma ripresa in modo speculare coerentemente con il lato dell’attrezzatura protettiva. A sinistra si vede l’eroe di spalle mentre brandisce la clava, l’essere ibrido sta già soccombendo e inarca violentemente il dorso durante la lotta. A destra è invece il centauro ad essere in primo piano, mentre Eracle è ritratto frontalmente sullo sfondo.

L’accecamento di Polifemo

“Come quando un fabbro immerge nell’acqua gelida una grande scure o un’ascia, che manda sibili acuti, e la tempra così, poiché questa è la forza del ferro, così strideva l’occhio intorno al tronco d’ulivo”.

Hom., Od. IX, 503-506

La vicenda è tra le più note: Odisseo, giunto alla corte dei Feaci, diventa egli stesso aedo e inizia a cantare la triste storia del suo ritorno da Troia alla presenza del re Alcinoo e dei suoi convitati: “delle mie dolorose sventure tu mi domandi, perché ancora di più io pianga e mi lamenti” (Hom., Od. IX, 13-14). L’eroe ricorda come lui e i suoi compagni riuscirono a fuggire dall’antro del ciclope Polifemo con l’inganno e l’astuzia, prima stordendolo con del vino per poi accecarlo. La vicenda sembra incentrata soprattutto sullo scontro tra la civiltà, caratterizzata da un codice etico-normativo che prevede l’obbligo all’ospitalità, la reverenza verso le divinità ed è simboleggiata dal vino (inteso come cibo raffinato-cotto), e la barbarie selvaggia che, come Polifemo, “non somigliava agli uomini che mangiano pane”.

Il gruppo di Sperlonga, alla cui ricostruzione in gesso (basata soprattutto su un rilievo oggi a Catania) è forse dato maggiore rilievo nell’esposizione museale rispetto agli originali, ritrae il momento immediatamente precedente all’accecamento. Il fulcro visivo della composizione è Odisseo, che oltre a dominare la composizione piramidale è anche posto al culmine dell’asse diagonale tracciato dal lungo palo retto da altri due compagni. La scena è allo stesso tempo concitata, come si può desumere dai violenti scatti dei personaggi umani, e furtiva. Al centro il gigantesco corpo di Polifemo giace invece disteso su una roccia, vinto dagli effetti del vino, bevanda a lui sconosciuta e astutamente offerta da Odisseo “Nessuno” dentro una coppa che ancora giace, secondo la ricostruzione, a terra.

Accecamento di Polifemo a Sperlonga
Ricostruzione in gesso del gruppo con l’accecamento di Polifemo. Da notare, in basso a destra, la coppa di vino offerta da Odisseo per stordire Polifemo

Osservando i resti dell’originale marmoreo, appare evidente l’enfasi posta sulla possente muscolatura del ciclope che si contrappone al senso di totale abbandono della mano. Come ben puntualizza Conticello: “la natura semiferina del personaggio è sottolineata dalla vellosità che compare sul dorso dei piedi”.

Odisseo, di cui rimangono la splendida testa con il tipico copricapo (pilos) e parte del corpo, è ritratto nel momento di massimo sforzo. Lo si evince dalla posizione della gamba sinistra, fortemente proiettata in avanti e piegata per bilanciare il peso del lungo palo che l’eroe sta per conficcare nell’occhio di Polifemo. La concentrazione e la determinazione sono ben trasmesse dall’espressività del volto di Odisseo, enfatizzata dagli occhi profondamente incavati nelle orbite e dai ciuffi scompigliati di barba e capelli.

Dei compagni di Odisseo sono da notare soprattutto quello più in basso e quello esterno alla scena principale. Il primo è reso con un corpo atletico dall’accentuata muscolatura, enfatizzata anche dalla sua nudità. È ritratto nello sforzo di spingere – si noti la tensione del tricipite e del deltoide e la posizione flessa della gamba sinistra – il lungo palo manovrato da Odisseo, del quale rimangono ancora delle tracce associate alla mano destra. Il secondo invece, più defilato, sembra arretrare “con animo sospeso” (Conticello 1974) alla vista della terribile scena e quasi proteggersi alzando la mano destra. Lo sgomento è evidente, ancora una volta, dalla forte espressività dello sguardo.

Scilla e la nave

“E intanto Scilla dalla concava nave rapì sei compagni, le braccia più forti, i migliori. Quando volsi di nuovo lo sguardo alla nave veloce, cercandoli, ne vidi, in alto, i piedi e le mani: sollevati per aria urlavano, gridando il mio nome, allora per l’ultima volta, col cuore straziato.”

Hom., Od. XII, 324-328

Secondo la descrizione fatta da Circe ad Odisseo (Hom., Od. XII, 111-131), la terribile Scilla è un mostro che abita all’interno di una grotta nebbiosa, il suo corpo è composto da sei lunghi colli terminanti con teste dagli aguzzi denti che usa per cibarsi dei malcapitati passanti, siano essi animali, uomini e persino altri mostri. Nella tradizione iconografica tuttavia, la creatura è spesso rappresentata come un essere ibrido composto da una figura femminile umana e un corpo anguiforme dotato di varie protuberanze con teste canine.

Nel gruppo di Sperlonga la scena è particolarmente complessa, e la sua realizzazione ben dimostra la capacità artistica e i virtuosismi tecnici dei suoi autori. La composizione, serrata e densa di dinamicità e terrore, ritrae a sinistra l’imponente prua della nave di Odisseo, al cui forte sviluppo verticale corrispondono simmetricamente, sull’altro lato, le possenti spire di Scilla che terminano, verso il basso, con mostruose teste leonine-canine.

La creatura, come nel passo dell’Odissea riportato sopra, è intenta ad afferrare e a divorare gli sfortunati compagni di Odisseo, che sono ritratti delle pose più disparate e contorte mentre, disperati, sono impegnati nell’inutile tentativo di liberarsi dall’abbraccio delle spire e dai morsi. Da notare è soprattutto il nocchiero, disposto prono quasi orizzontalmente rispetto alla prua, che (associandolo all’altro frammento) viene sollevato dalla testa e trascinato via da Scilla.

Sulla struttura laterale del timone della nave (castello di poppa) sporge un pannello che reca la firma degli autori del gruppo: “Athanodoros figlio di Agesandros e Agesandros figlio di Paionios e Polydoros figlio di Polydoros, Rodii, fecero”, gli artisti, come già accennato all’inizio, sono ricordati da Plinio come gli artefici del gruppo del Laocoonte ai Musei Vaticani. La problematica della datazione del ciclo scultoreo di Sperlonga verrà trattata subito sotto.

Navis Argo Ph

Un ulteriore elemento di questo “paesaggio culturale” (Pesando 2016) è costituito dall’istmo roccioso a sinistra dell’ingresso dell’antro. Questo è stato sbozzato a forma di prora di nave e arricchito di elementi decorativi tra i quali spicca una tabella mosaicata, visibile oggi al museo, che reca l’iscrizione NAVIS / ARGO / PH. Il riferimento alla famosa nave degli Argonauti ed il significato dell’ultima coppia di lettere, sono stati diversamente relazionati al ciclo scultoreo interno che ha come tema portante Odisseo.

Andreae scioglie PH come l’abbreviazione di Puppis Haemonia “definizione poetica della nave Argo da parte di Ovidio (Ars amatoria, 1, 6)”, sottolineando i numerosi collegamenti tra il programma decorativo e il poeta. Nell’Odissea (XII, 59-72) infatti Circe prospetta ad Odisseo due tragitti diversi per il suo ritorno: passare per le temibili Planktai (rocce del naufragio) avvisandolo che il solo Giasone a bordo di Argo riuscì nell’impresa, oppure attraversare lo stretto tra Scilla – raffigurata nel gruppo scultoreo all’interno dell’antro – e Cariddi.

Pesando scioglie invece PH come l’abbreviazione di Phaeacum (dei Feaci) ed interpreta Argo come un epiteto inneggiante alla velocità della nave, costruita appunto dai Feaci, utilizzata da Odisseo per il suo ritorno ad Itaca. Le parole di Zeus all’adirato Poseidone (Hom., Od., XIII, 160-172) sembrano quasi descrivere l’istmo modellato di Sperlonga: “Quando dalla città, vedranno la nave che si avvicina, trasformala allora in pietra vicino a riva: una roccia simile a nave veloce”.

Rodi, Pergamo, Roma..?

“a further argument rages as to whether they are Greek originals, Roman copies, or a mixture of the two, or even whether categories like these have any real meaning when applied to sculpture of this kind”.

Stewart 1977

“Come stile, ma anche come scelta dei contenuti, non ci sono dubbi: tra tutte queste sculture e la grande ara di Pergamo c’è una stretta parentela, siano esse copie di originali creati in una generazione felice, o siano esse rielaborazioni in altri luoghi e in altri tempi di uno stile ormai estraneo”.

Bejor 2013

La produzione e la datazione del ciclo scultoreo di Sperlonga sono particolarmente dibattuti. Potrebbe infatti trattarsi di originali greci ellenistici (II sec. a.C.), oppure opere di maestranze romane della prima età imperiale (I sec. d.C.). La pertinenza della villa a Tiberio, e la vicenda del crollo già citata sopra, possono fornire sostanzialmente “solo” il terminus ante quem: le sculture dovevano di certo essere presenti nella grotta prima della morte dell’imperatore (37 d.C.). A complicare la questione, anziché a risolverla, è da un lato la presenza della firma degli artisti rodii Athanodoros, Agesandros e Polydoros (che aggancerebbe la datazione di Sperlonga a quella, altrettanto complessa, del Laocoonte dei Vaticani), e dall’altro i richiami stilistici con la produzione ellenistica pergamena, in primis il grande fregio dell’altare di Zeus (sul tema consiglio la lettura di Badoud 2019).

Se l’analisi stilistica sembra non essere risolutiva, maggiori indicazioni sono fornite dalla recente analisi del marmo (Bruno, Attanasio, Prochaska 2015). Il materiale (marmo di Docimio) proviene infatti dalle cave turche di İscehisar, nell’antica Frigia, note per essere state sfruttate sostanzialmente solo dalla fine del I sec. a.C. Non appare quindi del tutto inverosimile che le sculture fossero state appositamente commissionate a degli artisti da Rodi, uno dei centri di produzione statuaria più prestigiosi, da un personaggio di altissimo profilo, forse lo stesso Tiberio che, come è noto, soggiornò in auto-esilio sull’isola del Dodecaneso per otto anni prima di rientrare a Roma richiamato da Augusto.

Odisseo a Sperlonga (e non solo)

Dalla descrizione delle varie sculture appare evidente che il soggetto principale del ciclo decorativo di Sperlonga fosse Odisseo. Come sottolinea Stewart, i diversi gruppi sembrano porre l’accento su una specifica caratteristica dell’eroe: la pietas nel caso del recupero del corpo di Achille, il dolus nello scontro con Diomede, la virtus contro Scilla e infine la calliditas nell’accecamento di Polifemo. Emerge quindi un Odisseo dalla condotta non sempre irreprensibile, quasi duplice, che le sculture, viste dal triclinio, enfatizzano: a sinistra vengono celebrate le sue virtù, a destra viene messa in risalto la sua mancanza di scrupoli. Il successo dell’apparato decorativo di Sperlonga appare evidente dalla sua riproposizione in altri contesti di residenze imperiali, basti pensare al ninfeo di Baia dell’imperatore Claudio, alla Domus Aurea di Nerone, alla villa a Castelgandolfo di Domiziano e infine al canopo di Villa Adriana (per approfondimenti vedi Carey 2002).

Davide-Giulio Aquini
ultimo aggiornamento: 09/07/2021


Letture consigliate

  • Andreae, B 1995, ad vocem Sperlonga, in Enciclopedia Italiana – V Appendice, Roma.
  • Andreae, B 1997, ad vocem Sperlonga, in Enciclopedia dell’Arte Antica, Roma.
  • Badoud, N. 2019, Le Laocoon et les sculptures de Sperlonga: chronologie et signification, Antike Kunst, 62, pp. 71-95.
  • Bejor, G., Castoldi, M., Lambrugo, C. 2013, Arte greca. Dal decimo al primo secolo a.C., Milano.
  • Bruno, M., Attanasio, D., Prochaska, W. 2015, The Docimium Marble Sculptures of the Grotto of Tiberius at Sperlonga, American Journal of Archaeology, 119, pp. 375-394.
  • Carey, S. 2002, A Tradition of Adventures in the Imperial Grotto, Greece & Rome, 49, pp. 44-61.
  • Cingano, E. 2007, La cultura poetica: forme, contesti, dimensione pragmatica, in M. Giangiulio (ed.), Il Mondo antico II 3. Grecia e Mediterraneo dall’VIII sec. a.C. all’Età delle guerre persiane, Roma, pp. 691-705.
  • Conticello, B. 1974, I gruppi scultorei di soggetto mitologico a Sperlonga, in B. Conticello e B. Andreae, Die Skulpturen von Sperlonga (Antike Plastik 14), Berlin, pp. 9-59.
  • Pesando, F. 2016, Navis Argo Ph(aeacum): Sperlonga e un’esegesi tiberiana? in J. Bonetto, M. Salvadori, A.R. Ghiotto, P. Zanovello, M.S. Busana (eds), I Mille volti del Passato. Scritti in onore di Francesca Ghedini, Roma, pp. 811-816.
  • Stewart, A.F. 1977, To Entertain an Emperor: Sperlonga, Laokoon and Tiberius at the Dinner-Table, The Journal of Roman Studies, 76, pp. 76-90.