Visto che non è possibile, causa COVID-19, andare per antichità fisicamente, ho deciso di viaggiare “in sogno” facendomi accompagnare dalle descrizioni delle incredibili architetture, sculture, rilievi e gemme di un perduto passato contenute nell’Hypnerotomachia Poliphili: un libro “firmato” dello sfuggente Francesco Colonna ed edito per la prima volta da Aldo Manuzio a Venezia nel 1499.

Polifilo, tu che sei fra tutti il più amato, so quanto ti entusiasmi nel vedere le antichità. Pertanto […] puoi andare, comodamente e in tutta libertà, ad ammirare a tuo piacere questo deserto santuario, crollato, divorato, sfigurato dell’antichità, devastato dagli incendi e sconvolto dallo scorrere del tempo: ormai potrai ammirarne solo i nobili ruderi, degni della più alta venerazione.

Hypnerotomachia Poliphili (trad. Ariani e Gabriele), p. 242.

Dettaglio delle antiche rovine, incisione a pag. 238.
© Herzog August Bibliothek Wolfenbüttel

Adelphi propone una pubblicazione (1998) raffinata ma accessibile in due volumi: il primo è la ristampa dell’originale, fondamentale per poter apprezzare la straordinaria e visionaria impaginazione aldina; il secondo è la traduzione in italiano corrente del testo rinascimentale col dotto (e per me indispensabile) commento curati da Marco Ariani e Mino Gabriele. L’opera è complessissima e intessuta di eruditi riferimenti che vanno ben oltre le mie capacità di esegesi, pertanto qui mi limiterò ad addentrarmi solo nelle questioni utili a questo contributo.

Hypnerotomachia Poliphili
Polifilo, all’inizio del suo viaggio in sogno, si aggira tra antiche rovine.
© Herzog August Bibliothek Wolfenbüttel
Aldo Manuzio Hypnerotomachia Poliphili
Dettagli della magnifica impaginazione di Aldo Manuzio (ristampa Adelphi)

Il tema portante della “battaglia d’amore in sogno” è il percorso iniziatico di Polifilo che ha come meta l’unione con la tanto desiderata Polia attraverso la “savia via di mezzo che, virtuosamente perseguita, sa temperare gli estremi e permette di raggiungere la conoscenza del vero Amore” (Gabriele 1998). Lungo il viaggio, Polifilo si sofferma a lungo nella descrizione di mirabili opere d’arte, architetture e reperti, delle vere e proprie ecfrasi (da qui l’ispirazione per il titolo di questo contributo) da interpretare come brani indispensabili al racconto e non come excursus prolissi. Non a caso infatti, numerose incisioni – non sempre del tutto coerenti con la descrizione scritta (vedi il progetto Icoxilòpoli di Stefano Colonna et al., Università La Sapienza) – accompagnano il testo a sottolineare il valore sapienziale di queste antichità, aiutando il lettore a visualizzarne gli elementi più importanti.

Allegorie della “savia via di mezzo”. A sx: Polifilo al trivio dove imboccherà la porta mediana MADRE D’AMORE. A dx: la raffigurazione del motto “festina tarde” SEDENDO MODERA LA VELOCITÀ, ALZANDOTI LA LENTEZZA. © Herzog August Bibliothek Wolfenbüttel

Queste opere, alcune ridotte in nobili macerie ed altre splendidamente conservate, sono artificiosamente costruite come raffinatissime allegorie che, assieme al paesaggio, alle azioni e naturalmente alle parole, strutturano il percorso iniziatico del protagonista. Una tale azione creativa, che attinge da un numero straordinario di fonti antiche e medievali – vedi il punto di Ariani e Gabriele – ha ovviamente aperto la questione sull’identità dell’autore. Il libro infatti è definito sin dalle prime pagine di apertura come “privo di padre”, “orfano senza autore” e, scomodando addirittura le Muse, “Non vogliamo che sia noto. – Perché? – È ferma volontà di vedere prima se l’invidia rabbiosa non divori anche le cose divine”. Tuttavia i capolettere dei capitoli formano l’acrostico che svela il nome POLIAM FRATER FRANCISCVS COLVMNA, ma purtroppo non la sua identità. Sfortuna vuole infatti che, a fine Quattrocento, fossero attivi due Francesco Colonna: un domenicano veneziano e il signore di Palestrina (Roma). Accesi dibattiti si consumano sulla validità di una e dell’altra opzione (basti leggere le piccate repliche dei filo-veneziani Ariani e Gabriele al compianto filo-romano Calvesi e viceversa), ai quali si aggiungono i cori dei propugnatori di altre paternità come quella al Leon Battista Alberti in virtù proprio delle accurate descrizioni architettoniche, degne di un trattato di costruzioni.

Il Veneto e l’antiquaria

L’opzione laziale è di certo molto affascinante (vedi Calvesi 1996 e poi il suo allievo Stefano Colonna, curiosa omonimia, 2012), soprattutto per le connessioni con le antichità del santuario della Fortuna Primigenia, tuttavia l’Hypnerotomachia Poliphili rientra appieno nel contesto antiquario del Veneto quattrocentesco (ciò comunque non esclude necessariamente l’ipotesi romana e la sua tradizione collezionistica).

Le innumerevoli citazioni antiquarie, non “semplici” cammei – nel senso cinematografico – ma veri ingredienti imprescindibili all’economia del racconto, non necessitano forse infatti di un rapporto diretto con vestigia monumentali come potrebbe avvenire a Palestrina e Roma, anzi. È forse proprio l’esperienza mediata (che tuttavia anche il Colonna romano ha sperimentato) attraverso la letteratura, le riproduzioni, le gemme e l’arte (anche contemporanea), che potrebbe facilitare un uso più disinvolto e creativo, spesso quasi “blasfemo” ai nostri occhi di contemporanei, dell’antichità stessa. L’ambiente colto e la vita dedita alle letture – non scevra tuttavia da frequenti e imbarazzanti derive secolari – che caratterizzano il veneziano domenicano Francesco Colonna sembrerebbero quindi forse più compatibili, rispetto alle incombenze quotidiane dell’omonimo signore di Palestrina, con la stesura di un’opera complessa come l’Hypnerotomachia Poliphili (Ariani 1998). Rimando alla bibliografia per chi volesse approfondire e maturare una propria opinione.

[…] le memorie che fanno ricordare quanto Venezia sia debitrice dell’antico […]. L’antico le ha dato forma, l’ha trasformata in una magica città di marmo e pietra, l’ha fatta sentire pari a Bisanzio, pari a Roma imperiale […]. L’entroterra veneto era ricco di ricordi di un passato che riaffiorava […]. Venezia mancava di questo passato tangibile, ma aveva davanti a sé le mille possibilità che la navigazione le offriva e che ben presto la vide affermarsi sulla sponda orientale del Mediterraneo.

Irene Favaretto 2019

il collezionismo veneziano, data la vocazione della città quale “porta d’Oriente”, fu quello maggiormente attratto dalle antichità del mondo greco. Tale “passione”, tuttavia, affondava le sue radici nel XII e XIII secolo, al tempo in cui la Repubblica di Venezia “costruiva” la sua identità politica e storica appropriandosi materialmente di un passato che, viste le origini altomedievali della città, non le era appartenuto.

Valentino Nizzo 2010

Tornando alla cultura antiquaria, è significativa l’affermazione di M. Centanni (2017) “la rinascita è possibile solo laddove è chiara la percezione di una morte, e il rinascimento dell’antico diventa attuale solo a partire dalla chiara percezione della fine del mondo antico”; E. Panofsky (2013) sessant’anni prima affermava in merito che “il Medio Evo aveva lasciato l’Antichità insepolta […]. Il Rinascimento si fermò a piangere sulla sua tomba e tentò di restituir vita alla sua anima”. Sono necessari quindi una consapevolezza di distanza, uno straniamento, dal passato per riuscire a goderne di una visione più lucida, complessiva e progressivamente più completa (principio di “disgiunzione” per E. Panofsky), nonché una appassionata nostalgia ansiosa di riscoprire l’antichità o, più cupamente, una inquietudine di perderla per sempre, soprattutto dopo la caduta di Costantinopoli nel 1453.

È forse da quell’evento segnante che il mosaico dell’Occidente, in particolare Venezia già proiettata verso il Mediterraneo orientale, percepisce da un lato il suo ruolo di custode di una tradizione, e dall’altro l’opportunità di potersene appropriare e disporre in modo libero e svincolato dal fardello – forse più simbolico che reale – dell’Oriente. La caduta di Costantinopoli, e i poco antecedenti concili di Ferrara e Firenze portarono un cospicuo numero di dotti greci a giungere e trasferirsi in Italia, portando spesso con sé volumi, antichità e preziosi doni che contribuirono a diffondere la tradizione greco-ellenistica-bizantina nelle corti e nelle città della penisola. È proprio durante questa diaspora che si forma il nucleo fondamentale della Biblioteca Marciana di Venezia grazie alla donazione del cardinale greco Bessarione, che “riuscì così ad acquistare, o a far copiare, la maggior parte dei capolavori della grecità antica e si preoccupò di trovare per la sua preziosa collezione un rifugio sicuro e un luogo dove le due culture, greca e latina, potessero dialogare” (citazione dal sito della Biblioteca Marciana).

Disegni di Jacopo Bellini (Louvre). Battesimo di Gesù; la Flagellazione e Cristo condotto da Pilato; Studio fantastico di monumenti romani. Da Moschini 1943

Venezia, e più in generale il suo entroterra (basti pensare a Padova) e il litorale adriatico, appaiono dunque imbevuti di una cultura antiquaria che appare già sviluppata e strutturata ai tempi della pubblicazione dell’Hypnerotomachia Poliphili. Quest’opera andrebbe ad inserirsi perfettamente in questa sensibilità che lega, solo per citarne alcuni esempi, Pietro Barbo (dal 1464 papa Paolo II) con la sua sconfinata dattilioteca poi confluita in parte nel tesoro mediceo (come quella del cardinale Ludovico Trevisan che doveva includere la celeberrima Tazza Farnese), Jacopo Bellini, Francesco Squarcione, Andrea Mantegna e, allargando lo spettro, la scuola ferrarese, Mantova e Rimini. Notevoli sono anche le testimonianze di “spedizioni” alla ricerca dell’antico, come la gita del 1464 sul lago di Garda del Mantegna con Tradate, Feliciano, Marcanova (vedi Tosetti Grandi 2010) e le periegesi illustrate di Ciriaco d’Ancona (prima metà del Quattrocento).

Io, spinto da un forte desiderio di vedere il mondo, ho consacrato e votato tutto me stesso, sia per completare l’investigazione di ciò che ormai da tempo è l’oggetto principale del mio interesse, cioè le vestigia dell’antichità sparse su tutta la Terra, e sia per poter affidare alla scrittura quelle che di giorno in giorno cadono in rovina per la lunga opera di devastazione del tempo a causa dell’umana indifferenza.

Ciriaco d’Ancona, 1441-42, Itinerarium (da Nizzo 2010)
Disegni pertinenti alle testimonianze di Ciriaco d’Ancona. Torre dei Venti di Atene (Sangallo, Vatic. Barb.Lat 4429 f. 29 r.); Fronte occidentale del Partenone (Deutsche Staatsbibliothek Berlin, Ms. Hamilton 254, f. 85r)

In viaggio con Polifilo

Di seguito commenterò in modo originale, come esempio, una architettura, una scultura ed una gemma descritte da Polifilo durante il suo viaggio in sogno. È importante ricordare che le xilografie, per quanto preziose, sono molto (e necessariamente) più abbreviate rispetto alle ricchissime e precise descrizioni, e non sempre del tutto coerenti col testo. Per approfondimenti rimando al già citato Icoxilòpoli 2 (2020).

Un esempio di architettura:
l’altissima specola su piramide e la vetustissima porta.

Xilografia con il grande edificio sormontato da obelisco ed il dettaglio del portale.
© Herzog August Bibliothek Wolfenbüttel

La prima grande struttura che incontra Polifilo è una immensa congerie di pietre, in realtà una architettura simil-templare in rovina realizzata in marmo pario, che si delinea man mano che l’attonito protagonista si avvicina. L’edificio è una sorta di diaframma – tanto architettonico quanto simbolico – che divide la misteriosa valle dove viene catapultato Polifilo, ad un altrettanto misterioso aldilà. La fabbrica, dalla descrizione e dalla xilografia (quest’ultima non in proporzione), è composta da quattro elementi sovrapposti: a) una sorta di basamento monumentale a dado; b) un gradone a parallelepipedo; c) una piramide; e infine, sulla cima, d) una altissima specola, che poi si rivelerà essere un obelisco sormontato da una ninfa segnavento in oricalco. Le varie parti sono collegate da una prima rampa scavata nel vivo sasso (a-b), e da una altissima scala a chiocciola (b-d) accessibile dalla bocca di una gigantesca protome di Medusa scolpita. Oltre che da quest’ultima, il gradone (b) è decorato da una crudele gigantomachia “alla quale mancava solo il soffio vitale” che curiosamente ritrae i Giganti a cavallo e con armi persiane. Si tratta quindi forse più propriamente una persianomachia, come quella del donario di Attalo elencata da Pausania I.25.2 o del fregio sud del tempio di Atena Nike, ma è nota una placca bronzea del veneziano (?) Vittore Gambello detto Camelio (ca. 1455-1537) che ritrae un combattimento che coinvolge proprio i Giganti e i cavalli.

Tutte queste figure eccedevano la statura naturale e sporgevano perfette in un rilievo scultoreo luminosissimo di marmo splendente, col piano di sfondo in pietra nerissima […]. Qui dunque infiniti corpi bellissimi, gesti estremi, atti violenti, corazze e varie immagini di morte nell’incertezza della vittoria.

Hypnerotomachia Poliphili (trad. Ariani e Gabriele), p. 29.

Scala di accesso
A destra, un po’ nascosta, la scala di accesso al basamento superiore
Persianomachia - Tempietto Atena Nike
Battaglia tra Greci e Persiani. Tempietto di Atena Nike, fregio sud.
© Museo dell’Acropoli di Atene >
Vittore Gambello detto Camelio
Vittore Gambello detto Camelio, Combattimento tra cavalieri e Giganti.
Venezia, Galleria Franchetti alla Ca’ d’Oro, da wikimedia Sailko

In generale, è l’intero apparato decorativo e scultoreo ad essere straordinario grazie alla ricchezza della sua policromia e alla combinazione di materiali preziosi, marmi, gemme e metalli:

Cornici, zofori o fregi, archivolti, ingenti tronconi di statue, spezzate le bronzee e perfette membra. Nicchie, conchiglie marine e vasi di marmo numidico, di porfirite, di marmi policromi dall’ornamento più vario; grandi vasche, acquedotti e infinite altre rovine di eccellente fattura

Hypnerotomachia Poliphili (trad. Ariani e Gabriele), p. 22.

Il varco che dovrà oltrepassare Polifilo, per poter proseguire il suo percorso iniziatico, è rappresentato dalla vetustissima porta che si apre alla base (a) del grande edificio. Il protagonista si dilunga qui in una descrizione architettonico-strutturale che sembra essere più pertinente ad un trattato specialistico che ad un racconto, non a caso infatti molti passaggi sono ripresi da Vitruvio (vedi note 43.4 e 43.5 ed. Ariani-Gabriele). Tutta la costruzione e la decorazione è basata su un modulo che, adeguatamente ripetuto o suddiviso genera una struttura armoniosa e “conveniente”. L’ordine geometrico e proporzionale è, ancora una volta, portatore dell’elemento centrale del percorso iniziatico del protagonista: la già citata aurea medietas.

Disegnate in tal modo queste figure, riflettevo opportunamente su quale ragione abbiano quei ciechi moderni che si stimano tanto capaci nell’arte architettonica senza sapere cos’è, come prova l’enormità dei loro falsi tabernacoli sacri e profani, pubblici o privati. Qui applicano disonestamente le regole dei medi proporzionali, ignorando ciò che detta l’insegnamento della natura, perché nella medietà consiste la virtù e la beatitudine […]

Hypnerotomachia Poliphili (trad. Ariani e Gabriele), p. 44.

Conclusa la lunga e scrupolosa descrizione della struttura, Polifilo inizia a raccontare i materiali e l’apparato decorativo, anch’essi coerenti con il tema della medietà. Ai lati della porta trovano spazio infatti due colonne doriche binate della più nobile porfirite e di splendida ofite, con basi e capitelli in bronzo. La porfirite (Porphyrites, Borghini – Marmi Antichi: 116) è anticamente nota per le sue caratteristiche refrattarie “sinonimo della pazienza che non s’incendia, ma spegne tutto ciò che si infiamma”, mentre l’ofite (Ophytes, Borghini – Marmi Antichi: 80-81) è simbolo di “ardore temperato” da Marziale 6, 42, 15 “et flamma tenui calent ophitae” (vedi note 41.1.B e 133.1 ed. Ariani-Gabriele).

Colonne in porfirite del Tempio di Romolo; colonna in ofite dal Palazzo Rondinini Roma.
Da wikimedia Zanner; Alamy

Le due coppie di colonne binate poggiano su altrettanti dadi con splendidi rilievi. A destra è ritratto un possente uomo intento a forgiare due ali al cospetto di una nobilissima matrona alata e del suo figlioletto e di altri personaggi, tra i quali un guerriero che indossa un’egida con la testa di Medusa. A sinistra sembra comparire la medesima figura femminile, nuda, che offre il figlio, ora alato, ad un uomo connotato da caduceo con spire viperine che deve educarlo all’arte del tiro con l’arco. È da notare che l’ordine di lettura delle due scene, da destra a sinistra, è esplicitato da Polifilo stesso. Come appare piuttosto evidente, si tratta della consegna ad Amore dei suoi attributi ali e frecce (altrimenti nota come l’educazione di Cupido), promossa dalla madre Venere e con la partecipazione di Vulcano, Marte e Mercurio (vedi nota 48.3 ed. Ariani-Gabriele). Le due scene, nell’analisi Ariani-Gabriele non trovano puntuali riscontri nella produzione antica, e potrebbero pertanto essere una costruzione moderna che sembra trovare eco in alcune opere rinascimentali, come, in ambito veneto, Il rimpatrio degli ambasciatori inglesi di Vittore Carpaccio (1490-1495) e una placchetta bronzea del già citato Vittore Gambello detto Camelio (ca. 1455-1537) (qui per approfondimenti >).

Vittore Carpaccio, Storie di Sant’Orsola, Il ritorno degli ambasciatori, Venezia, Galleria dell’Accademia.

Vittore Camelio
Vittore Gambello (Camelio), The Education of Cupid.
© Victoria and Albert Museum >

Un esempio di scultura:
il possente elefante obeliscoforo.

Antistante alla porta appena descritta, si apre una grande piazza quadrata pavimentata in marmi policromi, racchiusa simmetricamente su due lati da altrettanti colonnati in rovina verosimilmente ipetri (senza copertura, a cielo aperto), definiti nel testo – similmente a Vitruvio – come paradromides greci. In questo spazio sono collocati, ancora in situ, due grandi sculture: una statua equestre (per semplificare) e un elefante che porta un obelisco. Una terza, ora rovinata al suolo, è un colosso virile in bronzo; tuttavia molti altri frammenti lasciano intuire l’originale presenza di altre opere.

Xilografia dell’elefante obeliscoforo e del dettaglio del drappo inscritto.
© Herzog August Bibliothek Wolfenbüttel

mi si parò davanti un possente elefante di pietra nerissima, più dell’ossidiana, scintillante di aurei e argentei granelli, sparsi e fitti come un pulviscolo baluginante nella pietra. La superba durezza ne esaltava il traslucido chiarore, tanto che ogni oggetto che gli capitasse davanti proprio in quel punto veniva riflesso

Hypnerotomachia Poliphili (trad. Ariani e Gabriele), p. 36.

L’incredibile scultura, che poi Polifilo scoprirà essere cava e accessibile, ritrae un elefante in scala quasi reale ricavato da una pietra scurissima. La proboscide è sollevata e ricurva, mentre le zanne sono ricavate da un marmo bianco. L’animale è bardato con una sella e un drappo (sulla testa) finemente lavorati in bronzo. Sul suo dorso di erge un obelisco in serpentino / porfido verde di Grecia (Lapis lacedaemonius, Borghini – Marmi Antichi: 121) sormontato da una sfera trasparente, mentre in basso, sulla sua verticale, un basamento iscritto con geroglifici aiuta a sostenerne il peso. Ancora una volta, i materiali sono portatori di significati che giocano sulle contrapposizioni tra chiaro/scuro, luce/ombra, celeste/terreno, volontà/razionalità (vedi anche la gemma subito dopo).

Sul drappo bronzeo posto sulla fronte dell’animale, Polifilo legge una iscrizione in doppia lingua (greco ed arabo) che recita “fatica ed operosità”. Il suo significato verrà svelato oltre da una delle sue due accompagnatrici: la ninfa Logistica (vedi la gemma subito dopo): “nel mondo chi vuol trarre tesoro dal vivere lasci stare l’ozio che imputridisce”. All’interno della scultura dell’elefante, il protagonista troverà infatti due sepolcri, uno maschile in corrispondenza della parte posteriore, mentre il secondo, femminile, nella testa. È ancora una volta Logistica (la Ragione) a spiegare, l’ozio infatti imputridisce come il corpo, mentre il tesoro va cercato con operosità nella testa-mente. Tuttavia le implicazioni di questo binomio sono ben più profonde e legate a Platone e alla sua speculazione umanistica (vedi nota 41.2 ed. Ariani-Gabriele).

Elefante Hypnerotomachia Poliphili
Dettaglio della resa schematica dell’accesso all’interno della scultura, non pienamente corrispondente alla descrizione del testo

Tornando alla descrizione dell’opera, è da sottolineare che, malgrado la diffusione durante il Medioevo delle raffigurazioni di elefanti portatori di torri, le sculture sono poco attestate. L’aspetto di questo animale esotico doveva quindi essere nota soprattutto da immagini bidimensionali, tratte ad esempio dai bestiari medioevali, anche se va segnalato il disegno del già citato Ciriaco d’Ancona (1391-1452). Tra le statue più antiche, notevoli riscontri si trovano nel Tempio Malatestiano di Rimini voluto da Sigismondo Pandolfo Malatesta (1432-68), dove coppie di elefanti in pietra scurissima reggono elementi architettonici, e il Sacro Bosco di Bomarzo (metà XVI sec. d.C.).

Ciriaco d'Ancona Elefante
Disegno di elefante di Ciriaco d’Ancona

Elefanti nel tempio malatestiano di Rimini; l’elefante di Bomarzo.
Da wikimedia Sailko; Clausimbaum

Più tardi, e verosimilmente ispirati proprio dall’Hypnerotomachia Poliphili, sono i due elefanti obeliscofori di Roma e Catania. Il primo è il ben noto gruppo dell’obelisco della Minerva su progetto del Bernini del 1667, l’altro è l’altrettanto nota Fontana dell’Elefante di Vaccarini (1735-37). È interessante tuttavia sottolineare come esista un’altra Fontana dell’Elefante più antica (in realtà più un trionfo di Dioniso) presso il Castello del Catajo in provincia di Padova, realizzata da Lattanzio Maschio nel XVII sec. d.C.

Obelisco della Minerva sul progetto del Bernini, Roma; Fontana dell’Elefante di Vaccarini, Catania (quest’ultima foto wikimedia Luca Aless).

Lattanzo Maschio Catajo
Lattanzio Maschio, Fontana dell’elefante, Castello del Catajo (PD)

Un esempio di glittica:
l’abbagliante gemma con la caduta dei Giganti.

fra tutte le pietre preziose che ho potuto vedere distintamente, giudicai di particolare valore e prezzo, per l’inestimabile, inconfondibile preziosità, quello splendente incomparabile diamante, di una grandezza e di una bellezza mai viste, che pendeva dalla ricchissima collana sul candido seno della nostra divina sovrana.

Hypnerotomachia Poliphili (trad. Ariani e Gabriele), p. 131.

Gemma con Giove che sconfigge i giganti
Xilografia della gemma con Giove che ha sconfitto i Giganti.
© Herzog August Bibliothek Wolfenbüttel

L’aspetto della splendida gemma viene descritta, su richiesta di Polifilo, da Logistica (la Ragione), una delle due fanciulle che lo guideranno fino alla triplice porta (ulteriore passaggio iniziatico), mentre il significato degli attributi divini è spiegato dall’altra accompagnatrice, Telemia (la Volontà). Ragione e Volontà rappresentano il libero arbitrio e sono “le due facoltà che guidano l’agire dell’uomo” (vedi nota 122.4 ed. Ariani-Gabriele). È interessante notare come le due personificazioni, seppur in armonia, siano in sostanziale contrasto e Polifilo, giunto al bivio (in realtà un trivio) sceglierà di seguire le indicazioni di Telemia-Volontà (e quindi di proseguire la strada verso la voluptas venerea), facendo fuggire stizzita Logistica-Ragione. È molto interessante come riferimento, anche per la cronologia: 1463, la miniatura di Felice Feliciano (personaggio già citato per la gita con Mantegna ed altri) che ritrae Ercole al bivio tra Voluptas e Virtus (Tosetti Grandi 2010).

Felice Feliciano - Ercole al bivio
Felice Feliciano, Hercules in bivio / Ercole tra Volontà e Virtù, ms Reg. Lat. 1388, c. 17v (1463). Opera conosciuta grazie a Tosetti Grandi 2010.
Ercole al bivio
Annibale Carracci, Ercole al bivio (1595-1596).
Da wikimedia

Tornando alla gemma, questa ritrae, seguendo il testo e non la xilografia (comunque pertinente), un Giove trionfante e incoronato, assiso su un alto trono, al di sotto del quale si riversano i Giganti folgorati. Nella mano sinistra tiene una fiammella (la Caritas, Amore celeste), mentre nella destra una cornucopia (l’abbondanza). Il significato di questi attributi lo spiega, come accennato sopra, la stessa Telemia “per sua infinità bontà l’immortale Giove indica ai figli della terra che possono scegliere liberamente, secondo i loro desideri, ciò che a loro piace delle due cose che gli stanno in mano”.

Non è semplice trovare nella glittica o nella produzione delle monete una resa iconografica di Giove seduto sul trono (ovvi sono i richiami ad Olimpia) simile a quella mostrata nella xilografia, soprattutto associato alla cacciata dei Giganti. Il cammeo dalla collezione di Fulvio Orsini (1528-1600) ora al MANN, ritrae infatti una Gigantomachia, ma la scena è completamente diversa, Zeus è ancora impegnato nel vivo della crudele battaglia. Sul rovescio di un aureo di Diocleziano, Giove, più simile alla resa della xilografia, è raffigurato frontalmente e seduto sul trono, ma non c’è traccia degli avversari caduti.

Cammeo con Gigantomachia © MANN; Aureo di Diocleaziano RIC 17 (VI, Ticinum), Calicó 4455a, Depeyrot 1b/3, C 187 © acsearch

I riscontri più puntali, secondo Ariani-Gabriele (vedi nota 132.1) sono le personificazioni della Caritas, in particolare quella attribuita ad Agostino di Duccio nel Tempio Malatestiano di Rimini (1450-52). Qui infatti la posizione della figura è la medesima, così come gli attributi e la nicchia conclusa a conchiglia. Tuttavia anche la raffigurazione di Cristo nel giudizio universale della cappella degli Scrovegni di Padova (ca. 1303-05) richiama molto la xilografia: l’atteggiamento della figura è simile, in basso (anche se decentrate) sono rappresentate le anime dannate (corrispettivo dei Giganti), in più le teste degli angeli sembrano ricordare la montatura del gioiello.

Agostino di Duccio, Caritas, Tempio Malatestiano, Rimini; dettaglio del Cristo nel giudizio universale di Giotto, Cappella degli Scrovegni, Padova. Da wikimedia Sailko; WGA09228

Dalla lunghezza di questo contributo (ringrazio chi è arrivato fino a qui!) è intuibile il fascino e la complessità dell’Hypnerotomachia Poliphili. Un’opera che coniuga agli eruditi contenuti, una impaginazione all’avanguardia curata da Aldo Manuzio. Gli appassionati di archeologia, storia del collezionismo e arte, troveranno una enorme quantità di riferimenti, dotte citazioni e inedite invenzioni che lasciano trasparire il pulsante potenziale creativo dell’antico.

Il mio viaggio con Polifilo, inizialmente partito come una esperienza succedanea in attesa della riapertura di siti e musei, si è rivelato prezioso per iniziare a comprendere quanto anche l’archeologia “indiretta” e intellettuale, cioè mediata dai taccuini, disegni e racconti, sia una fonte di studio (per l’arte e la cultura) importante e feconda tanto quanto quella diretta sul campo.


Letture consigliate

  • Hypnerotomachia Poliphili, prima edizione di Aldo Manuzio (Venezia 1499). Riedizione Adelphi 1998 a cura di Marco Ariani, Mino Gabriele.
  • Bertuzzi, A., Caputo, E., Colonna, S., De Nicola, F., De Santis, F. e Dessì, A. 2020, Icoxilòpoli. Iconografia delle xilografie del Polifilo: 2, Roma.
  • Beschi, L. 1998, I disegni ateniesi di Ciriaco: analisi di una traduzione, in G. Paci e S. Sconocchia (eds.), Ciriaco d’Ancona e la cultura antiquaria dell’Umanesimo: atti del Convegno internazionale di studio: Ancona, 6-9 febbraio 1992, Reggio Emilia, pp. 83-102.
  • Bodnar, E.S.J. 1960, Cyriacus of Ancona and Athens, Bruxelles-Berchem.
  • Calvesi, M. 1996, La pugna d’amore in sogno di Francesco Colonna romano, Roma.
  • Calvesi, M. 1998, Il mito dell’Egitto nel Rinascimento (Art Dossier 52), Firenze.
  • Colonna, S. 2013, Hypnerotomachia Poliphili e Roma. Metodologie euristiche per lo studio del Rinascimento, Roma.
  • Nizzo, V. 2010, Prima della Scuola di Atene: alle origini dell’“archeologia” italiana in Grecia (Forma Urbis 4), Roma.
  • Tosetti Grandi, P. 2010, Andrea Mantegna, Giovanni Marcanova e Felice Feliciano, in R. Signorini, V. Rebonato e S. Tammaccaro (eds.), Andrea Mantegna impronta del genio: convegno internazionale di studi, Padova, Verona, Mantova 8, 9, 10 novembre 2006, Firenze, pp. 273-361.